Il post descrive il percorso che tra maggio e luglio di quest’anno ha portato la cooperativa sociale La Sfera alla definizione del proprio modello di transitività. Gli autori sono Bruna Penasa, Presidente della cooperativa con delega alla direzione, e Sergio Bevilacqua che ha gestito il laboratorio che ha accompagnato il percorso.
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La transitività è una chimera? Se ne parla tanto e in effetti la transitività dovrebbe costituire una soluzione interessante per le cooperative sociali di tipo B perché dovrebbe prevedere il passaggio di persone in situazioni di svantaggio dal contesto protetto garantito dalla cooperativa stessa al mercato del lavoro ordinario. Un passaggio impegnativo per la cooperativa che prende in carico la persona. Un passaggio che implica la valutazione del rapporto con la dimensione del lavoro: la capacità di tenuta rispetto ad orari, relazioni, al compito di lavoro assegnato. E poi la formazione di competenze specialistiche, ma anche di quelle trasversali. Il lavoro sulla consapevolezza dei vincoli con cui la persona deve fare i conti. E infine il supporto alla ricerca di un nuovo lavoro e la gestione del passaggio dalla cooperativa all’azienda.
Tutto questo è la transitività. Azioni articolate e connesse fra loro che implicano un’organizzazione capace di gestire vari servizi: valutazione, formazione, orientamento, supporto alla ricerca del lavoro. Ma anche relazione con i servizi invianti e con i centri per l’impiego. E poi, questione che implica una riflessione estremamente articolata, la relazione con l’azienda che si dichiara interessata ad assumere la persona impegnata in un percorso di transitività.
La transitività richiede quindi che la cooperativa si organizzi in modo da gestire sia i processi al proprio interno, pensiamo a cosa vuol dire valutare il livello di occupabilità delle persone in carico, sia verso l’esterno. E queste scelte organizzative riguardano vari ruoli: chi gestisce i rapporti con i tutor della cooperativa, chi gestisce i rapporti con i servizi e chi li gestice con le aziende. Tutte scelte che la cooperativa deve fare e che incidono sulle modalità organizzative e le procedure.
Se poi la cooperativa decide che queste scelte devono essere il risultato di un confronto fra le diverse funzioni coinvolte si può facilemente comprendere cosa si intende per definizione condivisa di un modello sulla transitività.
Così è stato per la cooperativa La Sfera di Trento che ha deciso di avviare un percorso laboratoriale per definire un proprio approccio strategico sulla transitività. Il laboratorio, articolato in 7 incontri, ha visto il coinvolgimento di diverse funzioni presenti in cooperativa: il marketing che conosce orientamenti e fabbisogni delle aziende, la funzione sociale che sa la complessità del processo di coinvolgimento delle persone in un programma di transitività, la funzione risorse umane che conosce i processi di analisi delle competenze e di apprendimento, la direzione che ha chiari gli obiettivi strategici ed economici della cooperativa.
Il laboratorio ha costituito un’occasione di confronto fra le diverse funzioni che si sono trovate a rappresentare il tema della transitività declinandolo con il linguaggio e le priorità caratteristiche della propria funzione.
Direzione e funzione marketing privilegiano inevitabilmente l’attenzione alle richieste che provengono dalle aziende, alle opportunità di mercato, ai servizi offerti dalla concorrenza e alle condizioni di contesto e di opportunità anche nel confronto con le politiche del sistema cooperativo e del policy maker locale: l’Agenzia del Lavoro.
Le funzioni sociale e risorse umane osservano le persone che si candidano alla cooperativa per la ricerca di un lavoro, la motivazione individuale ad un progetto con queste caratteristiche, gli strumenti a disposizione per favorire la transitività, la formazione di profili occupabili ed in grado di esprimere tenuta nei confronti del compito di lavoro in un ambito non protetto come quello aziendale.
La definizione di un modello condiviso implica il confronto tra questi aspetti, quindi tra punti di osservazione, approcci diversi. Implica la costruzione innanzitutto di un linguaggio condiviso che consenta di intendersi quando si parla di miglioramento dell’occupabilità delle persone in carico, di profili utili per l’azienda, di indicazioni necessarie per costruire questi profili.
E’ necessario definire chi ci pensa, con che modalità. Per esempio è importante definire a quali aziende proporre il servizio di transitività: tutte le aziende o solo quelle che cercano “profili prossimi” a quelli tipici della cooperativa? E poi è utile cercare le aziende fra quelle conosciute, con cui è già presente una relazione commerciale oppure anche altre, magari facendosi supportare da chi, come i consulenti del lavoro, potrebbe essere interessato ad ampliare la propria gamma di servizi/a caratterizzare la propria offerta in modo nuovo.
Definire una strategia ed articolare un modello sulla transitività implica riuscire a dare una risposta a questi quesiti, individuando un senso, un significato in grado di motivare chi rappresenta le diverse funzioni intorno al tavolo del laboratorio.
Un modello è condiviso se le diverse funzioni riescono a riconoscersi perchè riescono a vedere l’efficacia delle modalità operative, a identificarsi nella richiesta che viene fatta ai diversi ruoli coinvolti.
Il laboratorio si è occupato di questo: stabilire un ambito di confronto e socializzazione dei diversi punti di vista. Dando enfasi alle esperienze pregresse che costituivano punti di riferimento. Dando la possibilità di valutare perché alcune scelte passate non avevano funzionato. Fornendo il luogo dove individuare modalità operative funzionali alla presa in carico della persone svantaggiata o disabile.
E poi il laboratorio ha affrontato il tema della motivazione delle aziende verso la transitività. Perché un’azienda dovrebbe essere interessata, quali motivazioni utilizzare, quali messaggi dare ad aziende e consulenti del lavoro?
Le risposte sono emerse in un lungo paziente lavoro di ricerca, basato sul confronto, sulla possibilità di esplicitare cosa ha funzionato e cosa no in passato. Quali priorità e vincoli ha ogni funzione nella propria azione all’interno della cooperativa.
Evidentemente il percorso che ha portato la cooperativa La Sfera alla proposta di un modello che poi il CdA ha successivamente analizzato e approvato, è stato possibile grazie ad alcune condizioni. Una forte richiesta da parte della direzione determinata nel raggiungimento dell’obiettivo, la disponibilità da parte delle persone presenti a confrontarsi con punti di vista e riferimenti concettuali diversi da quelli abitualmente utilizzati nella propria attività professionale, nel proprio mestiere. La disponibilità di tempo a disposizione per approfondire i tanti risvolti legati alla definizione di un modello: i valori alla base della scelta di definire un modello sulla transitività, i ruoli coinvolti, le procedure. La disponibilità a farsi carico delle modifiche al proprio operare.
Se ne conclude che il processo di definizione del modello di transitività equivale ad un vero e proprio processo di cambiamento organizzativo. Non è quindi solo una definizione di un programma, di una serie di azioni circoscritte. Al contrario la definizione del modello di transitività sollecita in modo significativo i ruoli coinvolti e come abbiamo visto sono tanti, richiede una grande disponibilità a farsi carico di tanti microcambiamenti che hanno un elevato impatto su abitudini, pratiche, procedure. E il laboratorio è stato l’occasione per elaborare un documento, un vero e proprio manifesto, con i principi alla base della transitività presso La Sfera. Inoltre è stato importante individuare i fabbisogni dei vari ruoli per presidiare il modello e le modalità operative.
Il consistente lavoro elaborativo portato avanti dal gruppo ha consentito di dire che pur in presenza di un mercato del lavoro stravolto dalla crisi, la transitività non è per niente una chimera. E’ possibile definire un modello che abbia un respiro strategico ed è possibile farlo in modo condiviso, quindi con una modalità coerente con lo spirito della cooperazione sociale.
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Bruna Penasa e Sergio Bevilacqua
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Al percorso hanno partecipato Bruna Penasa (Presidente con delega alla direzione), Giulia Guidi (Responsabile sociale), Milena Casagranda (Responsabile formazione, selezione e sviluppo organizzativo), Nicola Sartori (Responsabile marketing e sviluppo), Elisa Pozza (Marketing e sviluppo).
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Formazione manageriale e cooperative sociali
Posted in Commenti, tagged competenze manageriali, cooperazione sociale, formazione manageriale, management sociale, Sviluppo organizzativo on 28 luglio 2014| Leave a Comment »
Per lungo tempo la formazione è stata ben distinta dall’addestramento, ritenuto una forma di apprendimento più semplice. La prima rivolta a figure di responsabilità, il secondo a figure tecnico specialistiche o operaie. La distinzione è venuta progressivamente meno. I corsi sulla sicurezza rientrano nella formazione, alla pari con i corsi gestire il personale o le tecniche di vendita.
E la cooperazione sociale come si rapporta alla formazione? Tutti i cooperatori diranno che la formazione serve. Per migliorare, crescere, innovare. E fin qui tutti in Italia ormai la pensano così.
Però molto spesso è temuta, soprattutto quando tocca temi nevralgici: il cambiamento organizzativo, la formazione di nuovi ruoli con funzioni di responsabilità, la definizione o il consolidamento di scelte strategiche. In questi casi spesso si ritiene utile affiancare il consulente che entra in aula per evitare che emergano orientamenti non coerenti con gli indirizzi della cooperativa. Ma così si perde una bella occasione. Se un presidente o un direttore entrano in aula la possibilità di espressione dei dubbi, delle criticità viene sicuramente meno. Si perdono potenzialità, lo strumento formativo non è stato utilizzato al meglio.
Perché la formazione non è un megafono che amplifica la linea dell’azienda. Se voglio convincere un adulto devo saper argomentare, entrare nel merito dei casi concreti, far parlare il gruppo e renderlo protagonista, alimentare il confronto fra i partecipanti. Allora sì che potrò modificare luoghi comuni, convinzioni incartapecorite, comportamenti non adeguati alle esigenze organizzative. Ma tutto questo non centra niente con il presidio dell’aula su temi critici.
C’è poi un’altra questione. Nella cooperazione sociale la formazione manageriale cioè quella rivolta alle funzioni di responsabilità è relativamente incoraggiata. Perché non è vista come una leva strategica per sviluppare l’organizzazione. Tanto più in una situazione di crisi e di incertezza. Il corso si fa se ci sono i finanziamenti. Se no si aspetta l’occasione buona. I più intraprendenti danno vita ad una funzione progettazione che recupera finanziamenti da regioni, province, fondazioni bancarie. Ma anche se il fatturato supera il milione di euro è difficile che si concepisca di impiegarne alcune migliaia per formare competenze tra i responsabili di qualche funzione.
Infine la questione dei paesi tuoi: penso al famoso detto: moglie e buoi . . . La cooperazione sociale preferisce sicuramente i docenti che provengono dal proprio sistema. Diffida dei consulenti che provengono dall’esterno. Senza pensare che l’esperienza sviluppata in sistemi diversi aiuta a render più articolati i parametri con cui si analizzano i temi della gestione delle organizzazioni. Aver fatto i conti con realtà lontane aiuta a fare paragoni. Non comporta, come si teme spesso, che allora il consulente importerà ricette e soluzioni da proporre, anzi imporre alla cooperativa.
Per questi motivi può essere utile una proposta che aiuti a fare i conti con temi di cultura manageriale. Che circoscriva i temi e favorisca il confronto grazie all’analisi di casi e al dialogo con i referenti di altre cooperative.
Pensiamo infatti che lo sviluppo di un’organizzazione, che operi nel no profit, nel mondo privato o in quello pubblico, passa anche nella crescita delle competenze professionali e manageriali. E questo, riteniamo, è il contributo che da consulenti di management ci sentiamo di offrire.
Sergio Bevilacqua
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