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Posts Tagged ‘valutazione delle politiche del lavoro’

navigator 18.01.19Può sembrare un controsenso, ma non lo è per niente. Il navigator, figura di cui si parla molto nel dibattito indotto dalla proposta del Ministro del Lavoro sulla gestione del reddito di cittadinanza, in realtà è una figura nota nell’ambito delle politiche attive del lavoro del nostro Paese.

E’ più corretto dire che è nota la funzione che questo profilo deve svolgere nei confronti dell’utente preso in carico, nei confronti del centro per l’impiego che lo ospita, del territorio che può collaborare a migliorare l’occupabilità della persona, per esempio con un percorso di formazione professionalizzante. E ovviamente è nota la funzione che deve svolgere nei confronti delle aziende.

E’ una figura che è stata utilizzata in molte occasioni e in molti centri per l’impiego, enti accreditati al lavoro o alla formazione, lo è tuttora.

La sua funzione dunque è conosciuta e apprezzata. Provo a descriverla in modo articolato. Deve prendere in carico l’utente approfondendo la conoscenza dei bisogni espliciti e anche quelli impliciti. Purtroppo, travolto dalle scadenze, spesso si limita ad un’analisi di quanto dichiara l’utente. Quando si trova di fronte un utente con bisogni complessi, come nel caso di una persona over 45, con una storia professionale legata ad un settore merceologico ormai obsoleto, deve fare un’operazione più complessa. Analizzare e valutarne le competenze, considerarne la motivazione e la possibilità di utilizzare percorsi formativi in grado di fornire nuove competenze.

Il navigator o per meglio dire chi ne svolge la funzione deve poi conoscere le richieste del mercato del lavoro del suo territorio e nel caso di persone disponibili a trasferirsi anche quelle di altri territori. Al momento è molto difficile che possa utilizzare banche dati nazionali essendo sostanzialmente assente l’integrazione fra le banche dati delle diverse regioni.

Le funzioni che ho elencato vengono svolte da figure che sono state definite in modo diverso: tutor (soprattutto negli enti accreditati), orientatore, coach, case manager (soprattutto nel sociale), esperto di inserimento lavorativo (soprattutto con i soggetti svantaggiati e con disabilità), animatore di processi occupazionali. Gli archivi delle regioni contengono vari progetti finanziati per sperimentare figure composite, definite con denominazioni diverse, capaci di dare vita e animare i servizi connessi al processo di gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Possiamo quindi dire che la figura del navigator è conosciuta con una costellazione di denominazioni legate alle sperimentazioni locali che hanno sempre sofferto della incapacità di affermarsi come standard di servizio a livello nazionale.

Il reddito di cittadinanza costituisce una preziosa occasione per cercare di ricomporre questa frammentazione che caratterizza i quasi 30 anni di vita dei centri per l’impiego e delle politiche attive del lavoro.

Sarà utile valorizzare le esperienze evitando di imporre soluzioni uguali per tutti i territori. Il navigator di un piccolo centro per l’impiego, con pochi operatori, avrà necessariamente una funzione composita e più articolata di quelle del centro che risiede nel capoluogo di provincia ed impiega una decina o più di operatori. In questo caso sarà inevitabile una specializzazione delle funzioni per gestire numeri di utenti decisamente più impegnativi. Inoltre la specializzazione sarà necessariamente permeabile al contesto e dovrà quindi rapportarsi con la presenza di enti di formazione, enti privati, servizi sociali. E’ illusorio pensare ad un profilo unico. E’ invece più funzionale prevedere un insieme di funzioni che di volta in volta verranno utilizzate in relazione alle caratteristiche del contesto rendendo questa figura magnetica nei confronti dei vari attori che entrano a vario titolo nella gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Infine l’occasione di ripensamento dei servizi per il lavoro e delle loro forme organizzative dovrebbe consentire di utilizzare le migliori sperimentazioni in ambiti prossimi ai servizi per il lavoro come l’inserimento delle persone con disabilità e la gestione del REI (reddito di inclusione). In entrambi gli ambiti si è dato vita ad una sperimentazione basata sul concetto di equipe interdisciplinari, che mettono intorno ad un tavolo competenze che da punti di vista diversi, quello dell’orientatore, dell’esperto di matching, del formatore e anche di chi ha una chiara idea delle esigenze “sociali” della persona, possono definire un progetto di inserimento nel mercato del lavoro. Progetto che è in grado di rispondere ai bisogni ad elevata complessità delle persone in carico.

Il REI avrà una vita lunga e fino al 2020 si affiancherà al Reddito di cittadinanza. L’inserimento di persone con disabilità ha una storia ormai consolidata e può fornire un quadro di esperienze nella gestione delle reti fra attori del territorio che possono ampliare le attuali competenze dei centri per l’impiego.

C’è quindi la possibilità di utilizzare il navigator come figura di congiunzione con queste esperienze anche perché una parte dell’utenza che beneficerà del reddito di cittadinanza è già conosciuta dai servizi che  operano sul REI e con la disabilità. La possibilità di utilizzare queste risorse a portata di mano consentirebbe un avvio meno traumatico della sperimentazione nazionale.

Per creare queste condizioni è però necessario forzare gli steccati che hanno impedito il dialogo ed il confronto tra centri per l’impiego, collocamento mirato ed equipe multidisciplinari.

E’ dunque necessaria una nuova stagione progettuale che colga l’occasione del reddito di cittadinanza per avviare un processo di riorganizzazione complessiva che rivaluti le esperienze pilota sviluppate nel corso di questi 3 decenni a partire dalla figura composita del navigator coinvolgendo gli operatori e favorendo la loro partecipazione in modo da definire modalità organizzative che consentano l’utilizzo di esperienze e competenze che potranno avvantaggiare l’azione del navigator.

Sergio Bevilacqua

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30 anni.JPGNel maggio del 1988 ho iniziato a collaborare con l’agenzia regionale Lombardia Lavoro nata nella seconda metà degli anni 80 come le agenzie del Friuli, Trentino, Val d’Aosta e Sardegna. L’attività di Lombardia Lavoro è consistita nella sperimentazione di servizi che nei decenni successivi sono diventati abituali per i centri per l’impiego, i centri accreditati al lavoro, le agenzie di orientamento. Si sono sperimentati i primi job club rivolti a persone disoccupate, il servizio di incontro tra domanda e offerta di lavoro, i corsi di riqualificazione per cassaintegrati, servizi ai tempi sostanzialmente sconosciuti. C’era chi, come Stefano Morri, iniziava a ragionare sulle potenzialità delle persone disabili ritenendo che si dovesse spostare l’attenzione dalla considerazione dei limiti dovuti alla patologia, alla valutazione delle potenzialità della persona disabile, approccio assolutamente innovativo in quegli anni.

Queste attività nel corso del tempo si sono strutturate in servizi che dalla ristretta esperienza delle agenzie regionali si sono progressivamente estese, con tempi e modalità diverse, agli enti di formazione professionale, ai neonati centri per l’impiego e a iniziare dal 2000 ai cosiddetti enti accreditati.

Lombardia Lavoro e le altre agenzie regionali sono stati gli incubatori della sperimentazione di servizi finalizzati allo sviluppo dell’occupabilità di giovani e adulti non occupati ai tempi assolutamente sconosciuti nel nostro paese. Questi servizi che si sono progressivamente imposti nell’ambito delle politiche attive del lavoro.

Quindi tutto bene? Se riflettiamo su cosa succedeva trent’anni fa possiamo dire che rispetto alla logica assistenziale che dominava le relazioni industriali con il ricorso ad un unico strumento, la cassa integrazione straordinaria che le aziende di grande dimensione utilizzavano senza limiti, effettivamente le cose sono migliorate.

Le politiche del lavoro si sono evolute dal momento che si è progressivamente puntato alla presenza di servizi per supportare l’inserimento delle persone al lavoro sostenendo le fasce più svantaggiate e fornendo servizi per rendere più efficiente il funzionamento del mercato del lavoro.

Però è necessario fare mente locale sulle occasioni che non hanno avuto un’adeguata attenzione. Si tratta di servizi, come l’orientamento, che non sono stati sviluppati per le potenzialità che hanno evidenziato. Ma anche di approcci nella gestione delle attività: si è sottovalutata l’importanza della valutazione dell’efficacia dei servizi. E si è sottovalutato anche l’importanza dell’integrazione fra politiche che avrebbero potuto generare sinergie importanti. Vediamo da vicino di cosa si tratta.

Lo sviluppo di servizi orientativi finalizzati a migliorare l’occupabilità delle persone che passano dalla disoccupazione alla ricerca di un nuovo lavoro è stato un obiettivo poco sviluppato, come viene rilevato anche nel recente Monitoraggio dei servizi per il lavoro effettuato dall’ANPAL. Tuttora è largamente prevalente l’idea che il servizio fondamentale per i centri per l’impiego sia costituito dall’incontro domanda-offerta eventualmente supportato da banche dati. L’assenza di una seria politica orientativa è legata all’idea che l’agenzia che prende in carico la persona senza lavoro debba necessariamente risolvere il problema individuando le opportunità del lavoro. Come se l’attivazione della persona non costituisse in molti casi una leva in grado di consentire all’utente dei servizi di trovarsi autonomamente una soluzione lavorativa. Sullo sfondo riemerge la logica assistenziale che delega al centro per l’impiego o ad altre agenzie la soluzione della mancanza di lavoro, con il risultato di non corresponsabilizzare l’utente e riducendo il cosiddetto patto di servizio ad un atto assolutamente adempitivo.

Un’altra questione che non ha riscosso adeguata attenzione è la valutazione degli esiti dei vari servizi. In generale la pubblica amministrazione fatica a organizzare momenti di valutazione funzionale e non burocratica dell’efficacia dei servizi perché è complicato individuare i criteri di questa valutazione. Si assiste in questo modo alla chiusura di esperienze com’è avvenuto nel caso di Lombardia Lavoro, senza che l’efficacia dei servizi erogati sia stata adeguatamente valutata. Lo stesso approccio si è ripetuto sul cosiddetto capitolo 908 pochi anni più tardi. Il tema non è una prerogativa lombarda, ma può tranquillamente estendersi all’intero territorio nazionale.

Fra le opportunità non adeguatamente sviluppate c’è una mancata riflessione sull’importanza dell’integrazione tra politiche che operano in sistemi diversi.

Questa lacuna storica emerge in modo significativo negli ambiti in cui utenze molto particolari come le persone con disabilità e in situazione di svantaggio socio economico richiedono la gestione di servizi per l’inserimento nel mercato del lavoro con modalità che implicano l’integrazione fra operatori del lavoro e del sociale. Dispositivi come il reddito di inclusione (REI) e le ipotesi riguardante il reddito di cittadinanza implicano una collaborazione fra operatori dei centri per l’impiego e dei servizi  sociali. Questo ritardo è anomalo dal momento che sono presenti molte esperienze legate all’applicazione della norma relativa all’inserimento delle persone disabili in azienda: la legge 68 del ‘99. In molti territori si stanno sperimentando ormai da tempo reti di collaborazione tra operatori dei CpI, degli enti accreditati, dei servizi sociali e della cooperazione sociale. Emerge però una ripetuta difficoltà a consolidare questi progetti sperimentali favorendone l’evoluzione in servizi istituzionalizzati gestiti dalla pubblica amministrazione in collaborazione con il privato e la cooperazione sociale.

Una ulteriore riflessione legata alle difficoltà di integrazione fra le diverse politiche riguarda il rapporto tra chi si occupa di servizi per il lavoro e chi governa i servizi per lo sviluppo economico. Logica vorrebbe che le amministrazioni che hanno una delega a favorire lo sviluppo di servizi per il lavoro dialogassero con chi opera per lo sviluppo economico dei territori. Le politiche di sviluppo tendono a premiare nicchie di mercato del lavoro che esprimono dinamicità, sono in fase di crescita e quindi generano occupazione. A volte succede anche che le potenzialità di questi settori vengano limitate dalla difficoltà a reperire figure professionali nel mercato del lavoro come segnala De Vico con una certa ricorrenza dalle pagine del Corriere della Sera. Nel nostro paese non esiste alcuna tradizione di dialogo tra queste due politiche eppure sarebbe molto importante che chi finanzia lo sviluppo di imprese destinate a generare occupazione si preoccupasse di dare indicazioni a chi fornisce servizi nell’ambito dell’istruzione, della formazione professionale e dei servizi per il lavoro.

Come vediamo in questi trent’anni si è fatta molta strada, le politiche attive del lavoro si sono affermate così come i servizi per l’impiego. Inoltre si sono messe a fuoco alcune lacune su cui sarà importante nel prossimo futuro favorire nuove visioni. La nascita di servizi basati su una logica di integrazione fra operatori che appartengono a sistemi diversi – il sociale, il lavoro e lo sviluppo economico – sarà un banco su cui valutare l’efficacia dei servizi.

Inoltre sarà necessario concepire un nuovo linguaggio per le politiche attive che consenta una comunicazione più efficace con l’opinione pubblica il cui coinvolgimento costituisce un passaggio evolutivo significativo per il consolidamento di una cultura orientata all’utilizzo di servizi irrinunciabili in una società in cui il lavoro stabile è ormai al tramonto.

Sergio Bevilacqua

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untitledLo scorso anno in parallelo alla discussione sullo scioglimento delle province è esplosa la questione dei Centri per l’impiego (CpI). La discussione ha subito assunto toni accesi legata al costo dei servizi offerti dal pubblico. Sergio Rizzo  sul Corriere della Sera si chiedeva se il costo unitario di ogni posto di lavoro, più di 13 mila euro, valesse la pena. “I numeri rappresentano una sentenza inappellabile. Negli ultimi sette anni hanno trovato occupazione attraverso i CpI non più di 35.183 persone ogni dodici mesi”. La sentenza che Rizzo riporta è molto chiara, i CpI sono “uno strumento che esce bocciato dall’esame dei dati, perché errare è umano ma perseverare diabolico. Piuttosto, destiniamo le risorse (…) ai giovani che vanno in azienda a fare tirocini o stage, anziché impiegarle per creare altri posti inutili in quegli uffici pubblici”.

Il tema sembra ottenebrato dal furore contro. Contro la scarsa efficienza dei CpI, contro le province e contro la pubblica amministrazione in genere. Le risposte arrivano, anche se in modo frammentato dal momento che mancano i luoghi dove approfondire i temi legati alle politiche del lavoro. Sul nostro blog Eugenia Scandellari, coordinatrice dei CpI modenesi, segnala che i dati vanno visti con attenzione. Ricorda che i CpI devono svolgere adempimenti di tipo amministrativo come il riconoscimento e la gestione dello stato di disoccupazione, comunicazioni obbligatorie, liste di mobilità. Particolare quest’ultimo non marginale perché la crisi ha aumentato la richiesta di ammortizzatori sociali che hanno notevolmente incrementato il flusso di persone. Ricorda i numeri che riguardano il territorio modenese: il 4% delle assunzioni è transitato dai CpI e il 3,7 dalle agenzie di somministrazione. Ma il dato più clamoroso è dato dal fatto che il 57% delle assunzioni è avvenuta per conoscenza diretta del candidato o per segnalazione da parte di clienti e fornitori. Il che ci dice che le persone trovano il lavoro tramite il sistema delle relazioni. E questo è il problema soprattutto quando la massa di disoccupati è data da persone che hanno sistemi di relazioni fragili e limitati. La scommessa a questo punto è dar vita a reti di servizi che intercettino queste persone utilizzando anche strumenti come i servizi di orientamento al lavoro spesso sottovalutati perché l’efficacia è difficilmente misurabile e sicuramente non lo è in termini di posti di lavoro.

Concetto Maugeri  ex direttore del Settore lavoro della Regione Piemonte, sempre sul blog di SLO, prende le distanze dalla diatriba sulla funzione pubblica o privata dei servizi perché fuorviante. Introduce il tema del difficile rapporto tra politiche lavoro e aziende. Perché i CpI hanno uno scarso rapporto con il mondo imprenditoriale e perché le politiche per il lavoro dovrebbero andare di pari passo con quelle per lo sviluppo. Propone di integrare “tutto ciò che si muove sul piano dello sviluppo della produzione di beni e servizi”, le diverse iniziative in termini di programmi, progetti territoriali, progetti d’impresa. Ritiene inoltre che quando si attivano risorse pubbliche per lo sviluppo, si debba in parallelo lavorare sullo sviluppo delle risorse umane: alle risorse per lo sviluppo (FESR) le politiche del lavoro devono affiancare ulteriori risorse (FSE) per servizi che ottimizzino l’occupabilità delle persone.

Romano Benini sul sito Work Magazine segnala che il dibattito fra funzione pubblica o privata dei servizi per l’impego esprime l’assenza di una cultura diffusa nella politica, nel sindacato e tra gli operatori economici che consideri le tutele per chi cerca lavoro sullo stesso piano di garanzie e tutele degli occupati. Infatti per chi cerca un lavoro “non è previsto dal Titolo V della Costituzione italiana (…) di poter avere accesso a servizi adeguati e non è prevista (…) l’obbligo che per ogni sussidio erogato a disoccupati sia prevista l’adesione ad un intervento di attivazione al lavoro”. Assenza per niente casuale che indica anche la marginalità attribuita dallo Stato ai CpI e che spiega perché la spesa per i servizi per l’impiego è inferiore ai 500 milioni di euro, contro i 5 miliardi francesi e gli 8 tedeschi. Benini riporta a fine articolo una ricca documentazione di confronto con gli altri paesi europei.

“L’assetto di competenze e responsabilità definito dal Titolo V della Costituzione e l’assenza di livelli essenziali delle prestazioni che il disoccupato può esigere (…) ha determinato la presenza di ben 20 sistemi regionali e 110 modelli provinciali di erogazione dei servizi (…) una evidente dispersione che limita la possibilità di trovare buone pratiche di sistema”. In questa assenza di programmazione nazionale emergono comunque numerosi casi di CpI in grado di offrire efficaci servizi di intermediazione e di attivazione delle persone senza lavoro. Infatti mentre “la media nazionale dell’intermediazione nel 2013 è del 3%, diventa un 10% in Umbria, un 12% in Toscana, un 18% in Piemonte e Trentino. Molto interessante il dato friulano, in cui più del sessanta per cento dei lavoratori intermediati vengono gestiti dal sistema pubblico”.

Si torna dunque ai dati da cui eravamo partiti con l’articolo di Rizzo sul Corriere però in una prospettiva diversa e con un quadro che riflette la complessità della partita in gioco. Gli scivoloni ideologici che contrappongono pubblico e privato non aiutano nessuno, anzi è necessario starne alla larga. Più utile invece mettere mano ad una serie di dispositivi fortemente integrati fra loro.

Non si può pensare che senza finanziamenti i CpI producano risultati e lo stesso vale per l’assenza di programmazione, di politiche per l’integrazione fra CpI e fra agenzie pubbliche e private, di sinergie fra politiche del lavoro e dello sviluppo economico. E non si può pensare che la totale mancanza di attenzione ai processi di lavoro interni ai CpI, fra CpI e strutture provinciali e regionali possa essere compensata dalla buona volontà dei singoli operatori, Processi, clima, ruoli e competenze sono elementi del funzionamento dei servizi che richiedono altrettanta attenzione e cura da chi programma le politiche.

Le partite aperte sono tante e quello che serve è il coinvolgimento a diversi livelli degli operatori nel processo di riformulazione della funzione dei CpI. E’ una risorsa molto importante in grado di compensare il grave ritardo delle politiche del lavoro del nostro paese. Non lasciamola perdere.

Sergio Bevilacqua

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Nonostante tutto ce la stiamo facendo anche noi. Il paese europeo più lento nello sviluppare una strategia organica di politiche del lavoro. Stiamo uscendo dagli anni bui dell’assistenzialismo caratterizzato da tanti bei provvedimenti tutti tesi ad assistere chi doveva essere privilegiato nella riduzione del costo del lavoro (giovani, donne, over 40, over 50, cassaintegrati . . . quasi tutti) e chi poteva avere un sussidio, una sorta di paracadute una volta espulso dal mercato del lavoro. E qui i diritti non erano affatto uguali per tutti.

Ma di queste cose non si è voluto parlare. Valutare è cosa difficile nel nostro paese. E i conti lo spiegano bene, quando non si valutano le ricadute si va avanti per inerzia, rispettando i precari tracciati che hanno caratterizzato le politiche del lavoro nel nostro paese come dice bene Concetto Maugeri che ha gestito le poltitiche attive del lavoro per anni in Piemonte, in un’intervista al mensile Una città http://www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=2031.

Claudio Negro della segreteria regionale della UIL Lombardia nel suo blog fa il punto della situazione sugli effetti dei provvedimenti della cosiddetta riforma Fornero. E lo fa in modo rigoroso valutando i cambiamenti dei singoli provvedimenti volti a tutelare chi perde il lavoro. Giustamente si chiede che fine però fanno le politiche attive del lavoro.

Per adesso se ne parla poco. Non ci sono i soldi quindi non se ne parla e l’argomento è rimandato, anche perchè lo sguardo dei media è puntato sull’articolo 18. Però forse è il momento di cominciare a dirsi quali servizi servono e perchè. E poi anche chi potrebbe farli. Magari interrogandosi sull’efficacia dei servizi per l’impiego attuali, guardando i numeri ed i costi.

Qualcuno si è chiesto quanto costano le varie architetture informatiche, il software per l’incontro tra domanda e offerta. Quanto costano quelli locali e quanto quelli nazionali. Serve di più un sistema informativo di questo tipo o strutture locali capaci di integrare pubblico e privato? E chi si occupa dei disabili e delle persone in situazione di disagio?

Per capire come continuare il percorso che ci porta in Europa e ci lascia alle spalle gli anni bui dell’assistenzialismo si possono fare tante cose subito. Per esempio cominciando a valutare quanto si è fatto fin’ora. . . . dando inizio alla primavera delle politiche attive del lavoro

Sergio

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